L'amore e altre forme d'odio di Luca Ricci
di Francesca Mazzucato da "Books and other sorrows"
In questo libro ho incontrato l'horror più affilato e spietato che mi sia mai capitato di trovare in un libro, in un film, in un quadro. Qualcosa di simile è rintracciabile solo nei pensieri, nei brandelli di vita che emergono contro la nostra volontà quando abbassiamo le difese, nelle cose losche e indecifrabili che portiamo dentro, ben stipate, sperando che l'involucro tenga. Ho trovato un horror avvolto in una scatola di latta di quelle dei biscotti al burro, in un pacco da festa di compleanno, in una confezione elegante foderata di carta leggera. Non si tratta di "horror" nel senso classico del genere, ma di una dimensione di "orrore del quotidiano" della quale Luca Ricci ci offre spietati, divoranti, incredibili quadretti. Il libro si intitola "L'amore e altre forme d'odio" , Einaudi 2006, e Guido Davico Bonino definisce splendidamente il rapporto fra forma e contenuto rintracciabile nella scrittura di Ricci all'inizio del libricino ( non lasciatevi ingannare, è breve ma denso e spesso) dove afferma, tra l'altro, di considerarlo uno degli scrittori più originali della sua generazione. Io condivido. Ma di che tipo di originalità si tratta? E dove va Ricci a trovare i temi e gli spunti per renderci questo orrore affilato e sottile, dove gli slittamenti avvengono per movimenti impercettibili, per un rotolare appena delineato che procede lasciando smarrito e sorpreso il lettore? Nel contesto, negli interni, nel quotidiano, nella vita di coppia e nella famiglia. Sono storie all'apparenza piccine ma in realtà enormi. In un racconto si tratta di una veranda, tutta la questione drammatica si svolge attorno al problema di una veranda che dovrebbe esserci ma non c'è, oppure di biancheria intima, di meringhe, di piselli. Con una scrittura che non ammicca, che non cerca l'effetto speciale ma che lo stana nelle cose, ecco l'orrore, il disastro che si fa sempre più vicino, che diventa palpabile, che strozza, che fa mancare l'aria. Negli interni si consuma la grande tragedia del vivere sotto forma di vessazioni prima minuscole e poi intollerabili. Negli interni ci si divora l'un l'altro senza rispettare regole naturali, senza rispettare niente. Nella condivisa finizione del rispetto di tutto. Convenzioni, feticci, rituali. Abile Ricci ci consegna elementi di vite plausibili come la nostra o come quelle dei nostri vicini di pianerottolo, storie di rientri, di lampade, di feste comandate, di cucina, di inviti. Ci consegna queste storie che hanno un odore non alieno, non differente. E' la prova a cui occorre sottomettersi, l'istantanea identificazione e poi il colpo. Quello che ti fa indietreggiare, che ti lascia esterrefatto, lettore smarrito che credeva di trovarsi fra percorsi consueti. Il colpo. Narrato in brevi racconti dove i protagonisti non hanno nomi ma ruoli, e non è certo una scelta casuale. Appaiono per un pochino luminosi, impeccabili, con i tasselli della loro vita al posto giusto, parte di un mandala che non verrà distrutto con un gesto della mano, che rimarrà solido e perenne per salvare, accogliere e custodire. Infatti il contesto resta. Il puzzle non viene distrutto. Viene eroso dall'interno. Ricci gli toglie la pelle, lascia che liquidi di varia natura, puzzolenti e disgustosi, colino dalle parole ineccepibili. Eleganti. Lo strazio avvolto di satin è rapido come un proiettile vagante. E' vischioso come la mediocrità che ti è stata raccontata con un ritmo suadente, senza fartene accorgere del tutto. E' un abito di merletto che si trasforma in muffa.